maratona dolomiti 2018

Non ce l’ho fatta

Con lo spirito competitivo si nasce, e io non ho avuto in dono questa malattia impegnativa. Tuttavia è umano puntare al miglioramento, e questo vale in tutti i campi, nei rapporti con le persone, nel lavoro, nello sport. Dopo la mia prima Maratona dles Dolomites, in cui per capire come poteva funzionare una granfondo dolomitica ho esordito con il percorso Classico, il Sellaronda (55 chilometri, 1780 metri di dislivello), l’anno scorso mi sono impegnato sul Medio (106 chilometri, 3130 metri di dislivello). Quest’anno, terzo step, indovinate? C’è in programma il Maratona (138 chilometri, 4230 metri di dislivello). Ovvio, naturale. Una sola incognita: ce la farò?

Basta allenarsi

Non è complicato fare il Maratona, basta una cosa: allenarsi. Lo dice la scienza, è una certezza, e così, ad aprile, via sui rulli in palestra con tutti i sacri crismi, powermeter e tabelle. Nel mezzo ci ho messo pure alcune granfondo, tra cui la Bra-Bra, L’Eroica Montalcino, la Nove Colli, la Strade Bianche, tutte nel mio stile, senza esagerare, facendo i percorsi medi. Insomma, un buon programma.
La scienza, però, dice anche che per provocare adattamenti degni di nota serve tempo, e quello che ho a disposizione non è sufficiente. Tuttavia confrontando su Strava le mie prestazioni di quest’anno con quelle del precedente vedo che oggi c’è un piccolo miglioramento, quindi parto per Corvara fiducioso e determinato, con il Maratona nel mirino. Correggo, parto speranzoso e dubbioso.

Brutta bestia, bella sfida

Sabato, a Corvara, incontro tanta gente, tecnici, forti ciclisti, guide, ovviamente mi informo. Il percorso lungo non è solo più lungo di 32 chilometri rispetto al Medio, ma di mezzo c’è il Giau, brutta bestia. Vedo che su Strava il segmento che si chiama passo Giau è di una decina di chilometri con pendenza media del dieci percento, la salita non ti molla mai e ha punte del 14. Bella sfida! Penso che con qualche momento per riprendere fiato potrei farcela. Poi però sorgono altri problemini, non è tutto lì. Klaus, una guida ciclistica che l’anno scorso ci ha accompagnati in zona, mi dice che: “Tutti pensano al Giau, ma prima di arrivare lì c’è una serie di saliscendi che non va certo trascurata”.
Altro dettaglio, dopo il Giau resta comunque il Falzarego. Già, il Falzarego. Lo conosco bene salendo da Arabba, e pur avendo una pendenza decente, si parla un misericordioso 6% per una decina di chilometri, mi ha sempre steso. Quindi, saliscendi, più Giau, più Falzarego dal lato Pocol (Cortina), mi sorge qualche dubbio.
Sabato però mi sentivo bene, e poi qualche giorno prima avevo anche intervistato Nico Valsesia e letto il suo libro “La fatica non esiste”. Certo, lui parla per sé, e vi posso assicurare che le sue imprese sono lontane cinquemila chilometri da ciò che può solo immaginare una persona normale, ma il suo esempio mi rassicurava, pensavo che con qualche buona sosta e con l’aplomb ciclistico che mi distingue sarei riuscito a fare questo benedetto lungo. Invece.

Parto già stanco

Non accuso la tensione della gara, quella non so cosa sia, sono qui per godermi la pedalata, non per battermi sulle salite. Quindi non è quella la causa del mio agitatissimo sonno del sabato: mi addormento tardi, mi sveglio alle due, poi alle tre, poi alle quattro, cioè pochi minuti prima della colazione. Quindi alle 4,30 giù dal letto, colazione e via a La Villa. Quando raggiungo la partenza mi sento come se avessi già fatto un giro del Sellaronda, non sono nella condizione migliore per lanciarmi all’attacco del Giau. Il che rappresenta una buona scusa. Un dubbio. Il sonno mancato potrebbe essere un meccanismo di difesa organizzato dal mio inconscio? Una scusa per evitare un’impresa che lui (l’inconscio) sa che non è alla mia portata? Oppure, semplicemente, il timore (la certezza) di non farcela.
Alle 6,30 si parte, io con questa fatica addosso, che però mi pare di dimenticare appena usciamo da Corvara e spunta il sole. Dopo tre tornanti, appena usciti dal paese, ci sono i tifosi danesi, che ci incitano con sonori applausi e agitando le loro bandierine; lo fanno con tutti, grandi sorrisi di qua e di là. Noi fatichiamo, la strada è lunga e dobbiamo avere una grande costanza, ma l’anno scorso al secondo giro (qui si ripassa se fai il percorso medio o lungo), cioè dopo circa quattro ore, ho trovato questi ragazzi esattamente nello stesso posto a fare ancora lo stesso baccano, complimenti! Vediamo se resistono anche quest’anno.
Al primo ristoro, sul Campolongo, oggi non mi fermo, non c’è bisogno, ormai sono esperto e non ho più la tremarella del primo anno, quando non avevo la minima idea di ciò che mi sarebbe capitato. La discesa dal Campolongo dura poco, e inizia subito la seconda pedalata per il Pordoi, una tranquilla salita di nove chilometri a meno del sette percento: si fa bene, e poi qua la vista è uno spettacolo.
È un momento buono per fare amicizia, siamo ancora freschi, abbiamo voglia di discorrere e siamo ancora tutti insieme. Se dai uno sguardo a valle vedi il serpentone delle biciclette ancora compatto, sono migliaia, senza fine, la coda si perde dove la strada sparisce dalla vista. C’è il sole, l’aria è fenomenale, il silenzio spettacolare, si sente solo il fruscio delle gomme sull’asfalto. È un momento magico.

Social e granfondo

A metà Pordoi sento una musichetta tirolese che arriva da dietro, ma non capisco cosa succede, perché non sento il suono di un motore. È Guido (c’è scritto sul pettorale), ha nascosto un impianto sonoro in tasca, e vedo che questa musica ha un effetto fenomenale sulle sue gambe, mi passa sorridente con una marcia in più. Sempre qui l’anno scorso, tra novemila partenti, ho trovato il mio amico Uberto, uno dei primi appassionati ciclisti ad accompagnarmi in questa nuova avventura su due ruote a pedali; quest’anno faccio amicizia con un mio compaesano, Simone, che saluto vedendo la scritta sulla maglia (Pesaro). Tutti quanti li ritrovo infine sui social, dove condivido questi filmati. Sempre grazie a questi molti mi riconoscono e oggi mi salutano mentre arranco su queste salite. Non ci conosciamo, se non per qualche like, ma è come se fossimo amici, il potere della fatica condivisa sulla strada e poi rivissuta grazie ai filmati è straordinario. Spesso succede anche che qualcuno si riconosca in una sequenza e poi si metta in contatto con me; il prossimo giro in bici siamo amici sulla terra. Il potere dei social.

Il Sella, i crampi, il ciclocross

Prima del Sella c’è questa discesa infinita, in cui il primo anno mi si sono congelate le gambe. L’inesperienza, poi era più fresco. Ovviamente in discesa cercavo di recuperare al 100%, quindi le gambette le tenevo ben ferme. Appena iniziata la salita del Sella, ma dopo cento metri proprio, tac: crampi in entrambe le gambe, due pezzi di legno. Fortuna che avevo già provato questa esperienza, altrimenti mi sarei spaventato. Questo blocco fa un brutto effetto perché non riesci a controllare i muscoli, e quella volta non sapevo nemmeno come risolvere il problema, ho aspettato un bel po’ e poi sono finalmente riuscito a partire.
Sempre il primo anno un altro stop sempre qua sul Sella: un tornante mi ha messo KO e mi sono fermato, seduto sul guardrail ad ansimare. Invece stavolta, che vado come un treno (un trenino, va’), verso la fine della salita un semaforo annuncia un restringimento della carreggiata per lavori, e dopo la curva l’imprevisto: l’ingorgo. Tutti giù dalle bici e camminare. Immagino che per i competitivi questo imprevisto sia un dramma, qualcuno sarà sicuramente rimasto incastrato perdendo qualche posizione; per noi turisti invece è una piacevole divagazione. Perché invece della fila sull’asfalto abbiamo preferito prendere per un campo, improvvisandoci ciclocrossisti, un momento di ulteriore piacere nel piacere di questa Maratona (tutto documentato).

Sassolungo & Strudel

La vista dal Sella toglie il fiato, quel poco che mi è rimasto, ma ripaga con un’impagabile scollino con vista sul Sassolungo, poi si riprende in picchiata verso il Gardena, l’ultima salita del Sellaronda. Il Gardena è un passo facile, tanto che al ristoro che c’è a metà strada si può anche tirare dritto, però c’è lo strudel, come si fa? Prima dell’ultima fatica che ci separa da Corvara si percorre un lungo ed euforizzante tratto di pianura. Euforizzante perché cambia il paesaggio, e una brezza favorevole ti fa sentire un grande ciclista. Qui il primo anno mi sentivo così a posto che un disgraziato mi stava per convincere di prendere per il Medio assieme a lui, e io ci stavo cascando. Ora ringrazio di essere rinsavito a Corvara e aver svoltato per il pasta party, non dico che adesso non sarei qui a raccontarla ma di sicuro non sarei riuscito a rifare il Campolongo, poi salire sul Falzarego, sul Valparola e infine arrampicarmi sul Mür dl giat. Quest’anno a Corvara prendo invece per i due lunghi, con l’idea di arrivare al cancello del bivio e poi decidere se prendere per il lungo o per il medio. La seconda idea mi pare comunque più assennata.

Ragazzi settantenni

Il secondo passaggio sul Campolongo è di nuovo allietato dai “miei” supporter danesi, ancora qui belli pimpanti a fare il tifo. Io, invece, mi sento meno brillante. Non soffro tanto, anche se nelle gambe ho una sessantina di chilometri, al mio passo non patisci troppo stress, tuttavia la fatica si accumula. Riesco però a rispettare la tabella di marcia, e così quando arrivo al cancello per il Maratona lo trovo ancora aperto. Non di tanto, c’è uno spiraglio di soli dieci minuti, ma per me questa è già una bella soddisfazione.
Mentre riprendo fiato intervisto chi svolta per il Medio: “Perché non fa il lungo?”. Ho una piccola statistica. Una buona metà non capisce la domanda in italiano. Gli stranieri, in genere, prendono la Maratona con calma ma si vede che è gente che pedala bene, semplicemente non sono qui per la competizione ma per godersi questo prezioso Patrimonio Mondiale UNESCO in una delle rare giornate in cui è chiuso al traffico motorizzato. Molti dei nostri, invece, sono settantenni o più. Complimenti, non solo si sono arrampicati fin qui, ma hanno una bella pedalata, agile e potente, si vede nel filmato. La bicicletta fa bene alla salute, si sa, questi ragazzi lo dimostrano.

Rinuncio e rilancio per il 2019

Una cosa mi sconforta, non sono ancora settantenne ma sono stanco sul serio, non riesco nemmeno a pensare a quei dieci chilometri al dieci percento del Giau, quindi prendo per il Medio, rimandando i miei sogni di gloria al prossimo anno, ora non ce la farei proprio. Rinuncio quindi, e meno male, quest’anno soffro anche il buon Falzarego, soffro così tanto che devo fermarmi a riprendere fiato. Sono deluso, perché pensavo di essere preparato, magari non tantissimo ma un po’ sì, invece mi ritrovo qua sul guardrail con un gel in mano sperando che arrivi un po’ di sollievo. Quando guardate questa mia immagine nel filmato, sapete come mi sento.

Il gattaccio ed è fatta

Il Valparola è sempre citato come una brutta bestia, è ripido e lo incroci verso la fine della Maratona. Di certo non è facile ma è breve, un chilometro e mezzo, e non mi mette angoscia. La conservo tutta per dopo, per l’ultimo sforzo, il Mür dl giat. Sono poco più di trecento metri, e il brutto brutto è concentrato negli ultimi cinquanta, dove la pendenza arriva oltre al venti percento, per passare sotto quel fantastico bombolone con la faccia del gatto muori d’un colpo. A me succede così, ma non sono il solo: mi sono informato presso gli esperti e m’han detto che non è facile per nessuno. Alcuni arrivano qua con i muscoli freddi ed è capitata pure qualche caduta a causa dei campi, con le gambe bloccate non riesci a sganciare le scarpette dai pedali e appoggiare il piede a terra in tempo. Capirai la prima volta con che angoscia lo affronti questo gattaccio. Poi sono riuscito a farlo pedalando e allo stesso tempo restare in piedi, però che fatica.
Spesso quando arrivi al traguardo di un evento pur faticoso ti scende un velo di tristezza, è finita, ora pensi già al prossimo. Questa volta sono così stanco che il mio unico pensiero è scendere dalla bici, bere, mangiare, sdraiarmi e riprendermi. Restano le ricompense, che questa volta sono speciali, prima di tutto sono arrivato e poi ci sono la stretta di mano e i complimenti di Michil Costa, una maratona anche per lui, che è sempre presente al traguardo. Poi c’è la medaglia con la magica parola: FINISHER.
Nota finale
I tifosi danesi li ho ritrovati anche al traguardo del medio, quindi dopo più di sei ore dalla partenza, ancora lì a sbracciarsi per noi. Si meritano pure loro la medaglia finisher. Poi scopro che esponevano una bandiera di un centro di fisioterapia, ecco cosa facevano, cercavano clienti.